Uno degli esercizi che più spesso propongo agli studenti di Action Academy per mettere in pratica le strategie di significato e analisi che includo nei miei corsi è quella di analizzare ciò che offrono i palinsesti televisivi e digitali in termini di proposta cinematografica, andando ad “acciuffare” qua e la tra emittenti generaliste, piattaforme digitali e canali tematici le opere più interessanti e dense sotto il profilo analitico.

La messa in onda di Django Unchained di Quentin Tarantino su Rai 4 il 10 Novembre è stata l’occasione per la nostra studentessa del Corso di recitazione Caterina Meniconi per un’esercizio critico del tutto originale e non scontato, in cui il must-see Tarantiniano è scandagliato a partire da un punto di vista non tenuto in considerazione dalle pur copiose analisi e recensioni prodotte su questo film: quello del ruolo del personaggio solo apparentemente secondario del Dott. Schultz, interpretato con sagacia e ironia dal tedesco Christoph Waltz.

Ho ritenuto quindi, vuoi per l’originalità dell’analisi di un film di cui si pensava di aver già analizzato tutto l’analizzabile, vuoi per l’interesse che continua a suscitare quest’opera stratificata che genera ancora percorsi di senso possibili e inesplorati, di riportare su queste pagine l’elaborato di Caterina credendo di fare cosa gradita ai nostri lettori più curiosi, come ai molti tarantiniani di vecchia guardia.

Buona lettura (se vi va)

Elogio al Dottor Shultz

Quando un personaggio ruba la scena al protagonista

Non c’è alcun dubbio, Tarantino sa sempre quello che fa. Lo puoi amare, lo puoi odiare, ma mai in alcun modo potrai rimanere indifferente alla sua opera, qualsiasi essa sia.

Ci ha abituati al sangue, a montaggi frenetici, a salti temporali e di difficile comprensione, a pellicole dissacranti e talvolta di non facile visione, e quando esce un suo film, fatichi a non andarlo a vedere. Vuoi o non vuoi entra nel discorso distratto a cena fra amici, nei post di instagram, facebook, twitter, nei meme, nel quotidiano reale e virtuale. Di Tarantino si parla, si discute, lo si conosce e riconosce. Anche coloro che di cinema poco si intendono sanno chi è, hanno visto un suo film, ed è uno dei pochi registi che si ricorda prima degli attori a cui demanda i suoi personaggi. 

Tarantino fa Tarantino e a te non resta che dire: “ok, fammi vedere che cosa ti sei inventato questa volta!”. È un regista che si diverte, gioca con i generi, li reinventa, li distorce, ne prende ciò che vuole e plasma ibridi cinematografici così ricchi da trasformare i critici in detective alla strenua ricerca di rimandi e citazioni. Sfida il pubblico e la critica, restando fedele a se stesso, ed è questo che lo rende uno dei più conosciuti registi del nostro tempo. Django Unchained del 2012 non fa eccezione.

Western atipico e quasi surreale, si muove fra storie di vendetta, critica sociale, commedia dissacrante e crude scene di violenza, il tutto condito con citazioni a più livelli (sonori, filmici, narrativi) di un genere, lo Spaghetti-Western, a cui Tarantino deve molto e che tenta di glorificare a suo modo, alla Tarantino appunto, e come sempre non delude. 

Quentin Tarantino – Foto di : Georges Biard – FonteCC BY-SA 3.0

Il genere, lo stereotipo e la metalinguisticità

La storia può risultare banale, non lontana da mitologie, letterature e produzioni cinematografiche precedenti: la vendetta. La cosa però non deve stupirci, perché quello che fa Tarantino non è un film sulla realtà, cioè non fa un film come i Western classici, che intendevano riprodurre in maniera più o meno romanzata la realtà dell‘America dell’ottocento e secoli precedenti, ma fa un film sui film, quelli di genere Western, un film che non vuole ricostruire la realtà effettiva dell’America di quegli anni ritraendo realisticamente la contrapposizione tra “cow-boys” e nativi, lo schiavismo, i cercatori d’oro, eccetera, ma intende mettere in scena il modo con cui il cinema Western degli anni 60 e 70 rappresentava quella realtà storica. Gli stereotipi, le banalizzazioni, le scene ricorrenti, i personaggi archetipici attraverso cui il genere Western ha raccontato e reso mitologica l’America dell’ottocento,  sono questi i veri obiettivi e la sostanza del film di Tarantino. I film “di genere”, il Western, la Fantascienza, la Commedia, il Poliziesco , il Noir si riconoscono proprio a partire dalla presenza ricorrente di alcuni temi, situazioni, personaggi o espedienti stilistici stereotipati che immancabilmente ritornano e che anzi lo spettatore si aspetta di incontrare. 

Se in un film ritroviamo dei gangster, delle scene di omicidio, delle spettacolari sparatorie e inseguimenti automobilistici per le vie di una metropoli lo identificheremo come Noir, proprio perché quelli sono gli elementi ricorrenti, gli stereotipi, con cui identifichiamo il genere Noir, e così sarà per il Thriller, l’Horror, la Fantascienza ed, ovviamente, così sarà per il genere Western. Temi come la ricerca di un qualche tesoro o bottino sepolto, la vendetta, la caccia all’uomo, la fuga da una qualche persecuzione o ingiustizia, la lotta contro una natura selvaggia e ostile (il mito della frontiera) e contro i rappresentanti dell’oscurantismo e della barbarie (gli indiani) sono tra i più ricorrenti e stereotipi nel genere Western, e scene come la sparatoria (quella finale di Django Unchained è di una spettacolarità ai limiti del cardiopalma), l’assalto alla diligenza, il duello tra protagonista e antagonista sono tra quelle che non possono mancare in un film che voglia considerarsi un Western.  

Un concentrato di stereotipi

La differenza sta nel fatto che questi stereotipi nei film di genere tradizionali sono “diluiti” dalla presenza di altre scene meno convenzionali che gli si inframezzano, e collocati in certi punti strategici del film, le cosiddette “scene clou” o “scene madri”, mentre Tarantino li prende tutti insieme e ne distilla un concentrato, realizzando un film di soli stereotipi del genere Western considerato nei suoi sviluppi storici. In più esaspera questi stereotipi per portarli a una misura di eccesso che sconfina nella parodia. La tanto esecrata violenza della sparatoria finale, che per scelte di inquadratura e montaggio è una esasperazione di quelle tipiche dei B-movies di genere western degli anni 70, è in realtà una forma di iperbolizzazione-parodizzazione della tipica ed esondante violenza degli  Spaghetti-Wstern italiani della stagione d’oro. È una violenza solo cinematografica, che non ha alcuna relazione di rappresentazione con una reale, quindi non è e non vuole essere il ritratto realistico della possibile violenza di una vera sparatoria, quanto la messa in scena divertita e sorniona delle modalità cinematografiche con cui un certo cinema, quello italiano degli anni 70, traduceva questa violenza in immagini e suoni.

Sergio Leone – Foto di: obbino – FonteCC BY 2.0

Django è un simbolo!

 L’apparente poca originalità della trama e dei personaggi è in realtà il risultato di una accurata operazione metafilmica, di studio e riutilizzo strategico di alcuni dei temi più ricorrenti (la vendetta, lo schiavismo, i cacciatori di taglie, ecc.) e di modalità della loro traduzione filmica del glorioso cinema Western, in particolare di quello detto “Spaghetti-Western”, degli anni ’70.

L’operazione, in realtà ha una sua raffinatezza. Tarantino sceglie un personaggio iconico, Django, tratto da un film cult come Django , girato nel (1966) dal regista-monumento del cinema di genere anni’70, il mitico Corbucci, un film che è espressione di punta della massima fioritura del cosiddetto Western all’Italiana. Il genere Western All’Italiana o “spaghetti” Western, è già di per sé un “rifacimento”, un tentativo di riproporre in chiave italianizzata il genere Western propriamente detto, che è quello degli americani, e che quindi già di suo comporta una operazione di estrapolazione e riutilizzo in chiave italica di tutti quegli stereotipi che rendevano “western” i film fatti in America.

 In più Django, il personaggio reso celebre dal film di Corbucci del ’66, nel corso degli anni successivi è stato fatto oggetto di culto, divenendo protagonista di un numero spropositato di pellicole in cui lo spunto iniziale viene rielaborato nei modi più disparati e secondo le più improbabili e sorprendenti contaminazioni di genere, per cui si passa da epigoni minori e B-movies propriamente western o Spaghetti-Western, come  Django spara per primo (1967) di Alberto De Martino, Pochi dollari per Django (1967) di León Klimovsky, Django il bastardo (1969) di Sergio Garrone, a ibridazioni sempre più inconsuete, come quella in cui a interpretare Django è Franco Franchi in  I due figli di Ringo (1966) o quella in cui Takashi Miike, uno dei più controversi e imprevedibili registi nipponici, col titolo di  Sukiyaki Western Django realizza un ibrido, culto per cinefili e critici, in cui agli elementi western consueti coniuga gli stilemi tipici dei B-movies nipponici a base di arti marziali e combattimenti di spada. Mettendo Django al centro del proprio film Tarantino in realtà ci sta mettendo dentro il personaggio simbolico di tutto un genere, che con la sua sola presenza opera una serie di richiami a quella precisa epoca del cinema e ai suoi temi. Non si tratta quindi di carenza di originalità, ma del risultato voluto di una operazione concettuale precisa condotta sui generi cinematografici.

La trama

Gli elementi della trama, quindi, sono volutamente stereotipati, archetipi del cinema Western, come quello dell’amore negato e della fanciulla da salvare, dell’anti eroe umiliato e vilipeso che ottiene la propria meritata vendetta (che spesso nei film Western coincide anche con la agognata giustizia), i temi dello schiavismo e i personaggi come il cacciatore di taglie e lo schiavo fuggitivo.

Django, schiavo della piantagione Carrucan e fuggito insieme alla moglie Brumilde, viene venduto “ad un prezzo miserabile” separatamente dalla propria amata. Riuscirà il nostro eroe a liberare la donzella e a vivere felice e contento al suo fianco? Inutile dire che la risposta è sì. Tarantino, del resto, non sembra disdegnare il lieto fine, qui come altrove, quindi cosa rende speciale una storia banale? 

Come scegliamo di raccontarla e lui la racconta bene, parecchio!

Dove e quando: Texas 1858. La guerra di secessione Americana non tarderà ad arrivare, ma ancora non si avverte. Gli schiavi sono schiavi, i negrieri pure e gli schiavisti hanno il loro da fare per soddisfare l’ingordigia dei bianchi possidenti. Le piantagioni di cotone pullulano di “musi neri”, musi, non volti, con occhi che guardano la terra e raramente si alzano ad incontrarne altri. Se lo fanno è per suppliche non accolte. Hanno crani dediti per struttura all’obbedienza ci dimostrerà il perfido e folle Monsieur Candie, e tutto scorre come sempre ha fatto. 

Dott.King Shultz: artefice di tutto

Chi: un dentista odontoiatra…

«Ma non era la storia di Django?»

Se mi date un momento vi spiego. Quanta fretta i lettori!

Eravamo rimasti al chi.

Un dentista odontoiatra “che non parla cristiano” e viaggia su un buffo carretto con un gigantesco dente dondolante sul tettuccio, come insegna pubblicitaria della propria professione dentale, si trova a passare sulla stessa strada di Django e dei suoi schiavisti. Non è un caso, Django è la chiave per riconoscere tre fuorilegge cui il dottore, adesso cacciatore di taglie, sta dando la caccia. 

Ogni storia nasce da un qualcuno cui sorge un obiettivo, per raggiungere il quale è disposto a tutto, a muoversi nel mondo, a superare ostacoli e così via. 

La storia di Django non nasce da Django, ma dal dottor King Shultz, è lui l’artefice di tutto, è il suo obiettivo, il suo dover catturare i banditi a smuovere le acque, a fornire il punto di partenza da cui Django partirà per trasformarsi e divenire in grado di ricercare ed attuare la propria implacabile vendetta.

Django è schiavo e come tale lo troviamo fin dalla prima scena. Niente in lui fa pensare a una qualche forma di autonomo movimento verso un obiettivo, a un anelito di rivolta, anche di fronte alle domande rispettose di Shultz il protagonista è mite e a tratti spaventato, per non dire ingenuo. 

La figura di Shultz è determinante: da un lato perché il tutto prenda avvio, dall’altro perché nel protagonista sorga l’obiettivo che dia moto alla storia, la sua sete di vendetta, o almeno alla terza parte di essa. 

Jamie Foxx – Foto di: Georges Biard – FonteCC BY-SA 3.0

Di storie, infatti, in Django ce ne sono molteplici: ben due trame verticali che si intersecano a trame orizzontali funzionali al conseguimento degli obiettivi dei due protagonisti.  Per i non addetti ai lavori diciamo anche che sono “verticali” quelle narrazioni, sottotrame del film, che riguardano singoli personaggi, temi o eventi della trama ( la sottotrama o narrazione verticale che ci racconta la caccia ai banditi da parte del Dott. Schultz, quella che riguarda la ricerca da parte di Django della sua amata Brumilde, quella dell’apprendistato di Django, quella che avviene a Candieland, e quella finale che racconta della vendetta inarrestabile di Django), mentre è detta “orizzontale” la trama o le varie trame parallele che attraversano il film nella sua interezza, dall’inizio alla fine, quella che con termine generico chiamiamo “la storia” generale del film (e che in fin dei conti, se ci pensate, è il risultato finale del compimento di tutte le varie narrazioni verticali che la compongono). 

La trama verticale con protagonista il Dottor Shultz genera una seconda trama verticale che vede Django in cerca di vendetta

Perché le due trame verticali possano dipanarsi e andare a coincidere, si necessita di piccole trame orizzontali che vadano a far evolvere i personaggi verso la propria nemesi finale e che vanno a plasmarsi nel corso di cinque parti ben distinte in cui possiamo suddividere la trama.

  1. Il Dottor Shultz in cerca dei fratelli Brittle
  2. L’addestramento di Django
  3. L’arrivo a Candieland
  4. Django e il Dottor Shultz sono smascherati
  5. La vendetta finale 

La trama verticale da cui il film prende avvio vede protagonista Shultz e la sua caccia ai fuorilegge. Il suo incontro con Django è funzionale al suo obiettivo, catturare tre banditi che si nascondono nella piantagione di Candieland. Django era stato schiavo in una altra piantagione in cui i tre erano impiegati come negrieri e dunque era il solo in grado di identificarli, ed ecco fornito l’incastro narrativo per fare incontrare il dottore-cacciatore di taglie e lo schiavo in catene. Una volta liberatolo, inevitabilmente, il Dottore diverrà anche complice dello schiavo in questione perché per lui, uomo di integerrimi principi morali,  donare la libertà a qualcuno, comporta anche l’assumersi una responsabilità cui inizialmente non aveva pensato, e sarà proprio questo senso di responsabilità, il fatto di sentirsi in dovere di dare il proprio aiuto a Django, a condurlo alla morte. Shultz è freddo, calcolatore, abile ammaliatore dalla dialettica ridondante che esce sempre pulito da qualsiasi situazione pericolosa gli si porga davanti. I suoi modi affettati stridono col suo lavoro e producono una sorta di ossimorica e sarcastica comicità. Le facce perplesse di Django di fronte alle azioni del dottore rendono la prima parte buffa e ironica quanto basta per amare il personaggio del dentista. Lo consideriamo un protagonista a tutti gli effetti, e in questo Tarantino è stato grandioso. In quanto responsabile della libertà di Django il dottore sente il dovere morale di aiutarlo nel compimento della sua nuova esistenza, del nuovo destino che gli ha regalato liberandolo,  quindi il suo obiettivo si trasforma: da cacciatore di taglie a liberatore di Brumilde al fianco di Django, ed è qui che la trama verticale di Shultz va a coincidere con quella di vendetta di Django, che diviene finalmente energia propulsiva all’azione scenica. È solamente da qui in avanti che Django, prima discepolo e personaggio secondario rispetto al dottore inizia ad acquisire un ruolo da protagonista che diverrà assoluto solo nella quinta parte de film, tutta dedicata alla sua terribile vendetta.

È solo grazie a questa trama verticale dedicata al dottore e attraverso quella che invece racconta l’apprendistato, e dunque anche la crescita dell’amicizia tra i due, che Django può evolvere sino a divenire il vendicatore feroce che incontriamo sul finale. È nel mettersi al servizio dell’obiettivo di Shultz, nel suo diventarne braccio destro e apprendista cacciatore di taglie, che Django impara chi è, cosa può fare e cosa vuole. La sua evoluzione è totale: scopre il proprio talento nel combattere, perfezionato in un addestramento a colpi di pistola contro un pupazzo di neve, impara a uccidere per legge e soldi, poco importa se il malcapitato ha il figlio accanto. È solo attraverso il tirocinio all’omicidio, che in realtà è un tirocinio alla vita, che gli impone il dottore, che Django ritrova una consapevolezza del proprio valore, della propria forza, ma anche della propria necessaria spietatezza, che gli permettere di passare dall’essere l’uomo sottomesso e imbelle dell’inizio al lucido, ma sanguinario, vendicatore della fine del film. Django è una creatura di Shultz, non dello stesso Django. Anche il suo aspetto subisce notevoli cambiamenti. Lo incontriamo coperto di stracci e dai capelli arruffati, lo ritroviamo poco dopo ben rasato in sella a un cavallo, vestito di tutto punto in tono di un blu elettrico ai limiti del grottesco e basti il commento di Bettina (“Ti vesti così perché lo vuoi tu?”) a far capire che ancora Django non sa bene chi sia. È solo alla fine della seconda parte che la trama verticale di Shultz può dirsi esaurita per lasciare il testimone della narrazione a quella che ha per protagonista Django. Dalla terza parte in poi sarà l’obiettivo di Django a dettare il ritmo della storia, non senza però le sapienti trovate del Dottore. Ecco perché mi ostino a dire che i protagonisti sono due, perché Django può dirsi protagonista concretamente solo dell’ultima parte e mezzo (se si considera la quarta dal momento in cui Shultz muore). Ma in quel caso, Django si limita a sopravvivere agli eventi e pur restando vivo, soccombe e viene catturato. È nell’attuare il piano finale che diviene protagonista a tutti gli effetti, poiché proprio in virtù della morte del suo amico, il suo personaggio può raggiungere la sublimazione in entità unica e significante di per sé. Raccolta anche l’ultima eredità morale dell’amico-pigmalione Django diventa “uomo” a tutti gli effetti, protagonista assoluto del film, simbolo archetipico della riscossa degli oppressi.

Ma Django diviene tale grazie a Shultz, ai suoi insegnamenti. Impara la calma e la pazienza, sostituendole alla mera e futile belligeranza. Si tramuta da essere vivente a essere pensante che vive e sceglie in base a ragionamenti concreti.

Leonardo Dicaprio – Foto di: Thore Siebrands – FonteCC BY-SA 3.0

La morte di Shultz può essere allora vista come funzionale all’ultima grande evoluzione di Django, il definitivo passaggio di testimone, e dato che la sua funzione si è esaurita il personaggio può uscire di scena, in questo caso con il botto. Ma se così fosse, Tarantino non avrebbe dato tanta rilevanza ad un’altra trasformazione, proprio quella di Shultz. È quando Shultz esce dalle proprie regole che è destinato a morire, è quando l’emozione, il viscerale disprezzo per l’odioso negriero impersonato da Di Caprio, domina le sue azioni sostituendosi al pensiero razionale e calcolatore che le governa normalmente che passa dall’essere carnefice all’essere vittima. Shultz uccide, ma lo fa per legge e soldi, seguendo un proprio personale codice etico, non sempre in accordo con la società del tempo, schiavitù in primis, quando uccide per odio, sulla scorta del sentimento, è destinato a fallire. Ha le mani sporche, ma non tanto quanto quelle di Monsieur Candie e di fronte al marcio che si cela dietro al sorriso di un diabolico Di Caprio, sceglie la strada dell’istinto, spezzando le regole che lo tenevano in vita in quel mondo. Uccidere Calvin lo rende umano a tutti gli effetti, e in quanto umano può morire.

Vedi com’è Tarantino? Ti rapisce a tal punto che non sai dove stai andando finché non ci sei arrivato davvero. Io che volevo analizzare la trama per intero, mi ritrovo con quattro pagine su un’apologia di Shultz, manco fossi iscritta al suo Fanclub. 

Il punto è che questo film è strano, è a episodi e in ognuno di loro vi sono personaggi così ben costruiti che potresti scriverci un articolo per ognuno. Vogliamo ricordare la scena della scorribanda in pieno stile Ku Klux Klan e della diatriba sui cappucci cuciti dalla moglie di Willard? O di Calvin stesso e del suo rapporto con il negriero Steven, interpretato magistralmente da Samuel L. Jackson? Sulla vicenda a Candieland ci sarebbe da scrivere un libro intero!

No, troppe cose da dire e poco spazio per farlo. Ma se vi va, potremmo fare una rubrica a puntate e su Tarantino ne avremmo molte di cose da dire.