In Action Academy, quando qualcuno dei nostri ragazzi ottiene un risultato di rilievo è una vera festa e un’occasione importante per promuoverne e valorizzarne i talenti. È il caso di AN DRE A, un cortometraggio prodotto, scritto, girato e diretto da Luigi Il Grande, fresco di diploma in Creatività e Produzione

Luigi Il Grande (Regista)

Quelli di AN DRE A non sono personaggi realisticamente ritratti, ma personaggi-metafora, simboli incarnati di una specifica condizione di esistenza o semplici istanze discorsive necessarie al discorso del regista, al suo teorema. Qui, in un silenzio assordante, conducono un’esistenza rituale, fatta di gestualità continuamente ripetute: lui trascorre ogni giorno interminabili e imponderabili lassi di tempo restando immobile all’interno di un astratto e mentalissimo corridoio bianchissimo, sostando di fronte a un’enigmatica porta che non ha il permesso di aprire.

Stefano Stagno

Prepotenti effetti visivi e astrazioni dell’immagine, sovraimpressioni, immagini al negativo, sfocamenti a vista e un trattamento ricercatamente anti naturalista dell’audio. Un sonoro interamente ricostruito in post produzione che invece di utilizzare “le copie” dei suoni della realtà affastella presenze sonore astratte che accedono direttamente al substrato psicologico dei personaggi diventando manifestazioni sonorizzate delle loro ansie o della loro incomunicabilità. 

Fotogramma estratto dal corto: AN DRE A

La decrittazione del film non è semplice, me ne accorgo scrivendone, quindi mi è parso utile un breve scambio di battute direttamente con Luigi Il Grande, che certo ci aiuta nel fare luce sulla complessità di questo breve film.

L’INTERVISTA

  • Innanzitutto volevo chiederti come ti sembra sia cambiata la tua pratica registica a seguito del corso di Creatività e Produzione di Action Academy

Beh…io sono sempre stato più attento a curare gli aspetti creativi del fare cinema, la scrittura la realizzazione delle inquadrature, invece il corso di Creatività e Produzione mi ha fornito una serie di strumenti e di modalità operative nel campo della produzione che si sono rivelati fondamentali. Saper gestire le risorse economiche di cui si dispone in maniera razionalizzata, e saper costruire le scene e le riprese in funzione di questa disponibilità già nella fase della loro ideazione, il saper organizzare tutti gli aspetti anche pratici e logistici di un set, saper organizzare le uscite per la ricerca delle location senza sprecare giornate intere, come il conoscere approfonditamente gli strumenti “tecnici”, le telecamere, le ottiche e i programmi di montaggio, sono tutti aspetti fondamentali, che permettono di non sprecare tempo, soldi, ore di duro lavoro e danno alle produzioni quell’aspetto professionale, ben rifinito che vedi al cinema o in televisione. In più si tratta di fattori che spesso fanno la differenza tra il riuscire a portare a termine un film e il doverlo lasciare perdere a metà strada. Si possono avere le idee migliori del mondo, ma se poi non si trova la maniera di concretizzarle rimangono solo belle intenzioni, velleità da artista.

  • Quello del regista in Italia è spesso percepito come un “non-lavoro”, e a questo si sommano le ulteriori difficoltà che il settore dello spettacolo sta patendo in tempi di pandemia. Qual è la prospettiva con cui un giovane regista come te guarda a questi temi?

Questo è un momento storico difficile per tutti, soprattutto per il mondo dell’intrattenimento, ma Action Academy mi ha aiutato da subito a trovare degli impieghi nel settore grazie alle sue risorse: subito dopo il diploma sono stato preso dalla società di produzione Vivi La Vita e questa, tempo quasi zero, mi ha fatto assumere nella redazione di Primo Appuntamento, il programma trasmesso su Real Time a cui ho lavorato per tutta la stagione. Action Academy mi ha inoltre proposto una collaborazione come montatore, quindi sto lavorando al montaggio dei corti che produciamo internamente. Non c’è tempo per stancarsi, insomma.

Ma al di fuori di questa “comfort zone” il problema del riconoscimento delle professionalità di chi lavora nello spettacolo, non solo dei registi, è un problema vero. La frase: «faccio il regista» non viene mai accolta come la dichiarazione di una professione qualsiasi, ci si vede sempre dietro una certa pretenziosità, l’arroganza di chi vuole campare non faticando, e peggio ancora se si tratta di un giovane, che invece di pensare a costruirsi una professione seria ancora pensa a “divertirsi”.

In più per quasi tutti, soprattutto agli inizi, il cinema è una passione, di quelle vere, per cui tantissimi ragazzi sono disposti a lavorare a condizioni del tutto sfavorevoli e perfino completamente a gratis, pur di fare quello che amano, il cinema, e questo contribuisce a creare l’immagine del cinema come di un “non-lavoro”, in qualche modo.

Cassandra Barresi
  • Per entrare nello specifico di AN DRE A, cominciamo col cercare di descrivere che cosa è esattamente questo strano mondo allucinato e claustrofobico che metti in scena

Più che cercare di mettere in scena il mondo ho cercato di tradurlo in una sua metafora. La quotidianità in AN DRE A non è messa in atto in una dimensione reale, è più una costruzione mentale fatta di simboli e similitudini: come in altri miei lavori precedenti, ho voluto creare una apparente “normalità” del quotidiano, che come il quotidiano reale è sempre avvolta da una sorta di “patina”, di falsa allegria e senso di normalità, poi “faccio saltare” questa patina in alcuni punti per metterne in mostra l’interiorità più oscura, il senso di assurdo che fingiamo di ignorare.

Cassandra Barresi
  • Hai scelto di fare un film “inquieto”, molto psicologico, stilisticamente intenso e allucinato, che impone allo spettatore una visione complessa, poco in linea con l’idea di una facile “commerciabilità” del prodotto. Che rapporto hai con il “successo”?

L’espressione e la sensibilità artistica sono e devono essere a mio avviso il fine principale di chi lavora in qualsiasi ambiente legato all’arte, e credo fermamente che siano questi i valori di cui tener conto prima e al di sopra su qualsiasi considerazione sulla vendibilità. Il cinema di base è arte, e come tale non può e non deve essere assoggettato a considerazioni strategiche riguardo al modo in cui arriva al fruitore: ciò che l’artista produce lo produce perché lo vuole fare, che sia per puro sfogo creativo, che sia per voler mandare un messaggio al mondo, che sia per voler raccontare una storia; ciò che pensa lo spettatore “medio” è relativamente superfluo, per cui no, il cinema non deve necessariamente rispettare delle regole, non deve per forza seguire una trama ed intrattenere il pubblico, all’occorrenza può delirare o diventare astratto, diventare perfino incomprensibile in casi estremi. Certo, più pubblico si riesce a raggiunge più soddisfazione c’è, ma è una cosa che prescinde dalla creazione dell’opera, riguarda un momento successivo, quello della commercializzazione. Tutto dipende dalla creatività dell’artista e dai suoi obiettivi. Se vuoi creare per creare, lasciando la notorietà dovuta al riscontro del pubblico solo come conseguenza possibile, allora tutto si può fare, se poni invece le due cose sullo stesso piano allora la questione si fa complicata. Tra il fare un film “unico”, magari più difficile da realizzare e magari ancor di più da comprendere, perché attraverso una stratificazione di significati più complessa è in grado di creare un immaginario più ricco e nuovo, e che per queste ragioni sarà certamente debole “al botteghino”, e uno di sicuro successo commerciale, ma necessariamente “preconfezionato” e rigorosamente rispettoso delle regole prestabilite sceglierei il primo, con tutti i rischi che comporta. Come autore vorrei cercare di abituare gradualmente il pubblico a ricevere sempre più stimoli da un cinema più sperimentale, affinché questo possa influenzare anche il panorama commerciale, arrivando quindi ad una maggiore quantità di persone con un linguaggio meno comune.

Cassandra Barresi e Stefano Stagno
  • Quindi per te bisogna distinguere sempre un cinema “d’autore”, o “d’artista”, che dir si voglia da uno “commerciale”, e mi sembra anche di capire che la tua preferenza di valore vada tutta in favore del primo….

Personalmente non credo che un cinema più “standard”, che rappresenta la realtà così com’è,  necessariamente esprima un valore negativo, o comunque più ridotto di uno che consideriamo “d’autore”. È importante che alla base ci sia un sincero bisogno di narrare, utilizzando i mezzi tecnici che si hanno a disposizione. Utilizzare una doppia esposizione non significa non rappresentare la realtà così com’è perché i nostri occhi non sono capaci di vedere la vita in quel modo, significa rappresentare la realtà così com’è ma con qualcosa in più.  Il cinema è probabilmente il mezzo artistico più complesso, è per questo che al suo interno possono coesistere con pari dignità prodotti più stratificati e altri più diretti nei modi di rappresentazione. D’altro canto registi cui viene universalmente riconosciuto valore indiscusso d’artista, Hitchcock su tutti, furono attentissimi al tipo e all’intensità degli effetti che volevano produrre sul pubblico, anzi nel caso di Hitchcock una parte della sua fama artistica dipende proprio dalla sua geniale capacità di costruire meccanismi di suoni e immagini in grado di produrre sugli spettatori sensazioni fortissime, veri e propri shock. I suoi film erano estremamente “commerciali”, pensati cioè per piacere e impressionare un pubblico il più vasto possibile, ma dire che non fossero anche delle opere d’arte purissime sarebbe una vera bestemmia cinematografica.

Il problema di certo cinema più commerciale, semmai, è che sottostima il suo spettatore oltre i limiti della stupidità, e quindi sente il bisogno di fornirgli sempre delle rappresentazioni del mondo lineari, semplificate sino al limite del piattume, e che non richiedano alcuno sforzo di interpretazione o deduzione, di cui non lo ritiene capace, quindi cerca non solo di riprodurre realtà e sentimenti con uno stile chiaro, sempre aderente ai modi visivi e uditivi con cui percepiamo normalmente la realtà, ma di questa presenta una versione semplificata, “per bambini”, che escluda tutte quelle ambiguità, dubbi o incertezze che fanno parte del nostro quotidiano.

Cassandra Barresi e Stefano Stagno
  • Hai uno stile visionario, dagli andamenti onirici, più da incubo che da sogno, quali registi ti hanno influenzato maggiormente nel concepire questa tua visione?

David Lynch è sicuramente una delle mie maggiori fonti di ispirazione in generale per tutti i miei lavori. Ma Lynch stesso ha preso tanto da Fellini, che in qualche modo c’entra con la mia idea di cinema onirico, ibridando però la sua oniricità con un lato più oscuro, con gli abissi in cui sprofonda la psiche dell’uomo, che sicuramente è la peculiarità che più mi affascina. Insieme a lui, Andrzej Zulawski, Lars Von Trier e Michael Haneke sono alcuni nomi a cui mi capita spesso di pensare quando scrivo una sceneggiatura o quando la metto in scena. 

In particolare, nel caso di AN DRE A, Yorgos Lanthimos è stata probabilmente la mia ispirazione più grande nello studio della composizione e dei non-movimenti della scena.

Stefano Stagno e Cassandra Barresi
  • Parlami di questo sonoro “espressionista”, asincronico e contrappuntistico, avrebbero detto Ejzenstein e Pudovkin, che invece dei suoni della realtà ci da in ascolto i suoni “della mente” dei personaggi…

Il sonoro è un importantissimo veicolo di informazioni, assolutamente al pari (a volte anche al di sopra) dell’immagine. Grazie all’audio le immagini sono più reali, non nel senso di realtà di vita quotidiana ma realtà relativa all’immaginario cinematografico in cui la narrazione ci guida. Nel caso particolare di AN DRE A infatti il suono e la sua assenza raccontano tutt’altro rispetto a cosa in quel determinato momento sta accadendo in video, ma nonostante ciò rende reale quell’immagine nel senso di espressione dell’emozione e dei significati al massimo del loro potenziale. Il suono apparentemente separato dalla realtà che vediamo è così un megafono per ciò che i personaggi non esprimono attraverso la propria voce ma che da un lato sentono nella propria interiorità e dall’altro sentono letteralmente nell’ambiente della propria realtà. Non è un caso nella prima inquadratura del corto, al centro dell’immagine c’è l’orecchio del protagonista. Senza il trattamento del suono in queste modalità non capiremmo che quello che stiamo vedendo non è quello che sta accadendo.

Se in AN DRE A il suono è espressione dell’interiorità del personaggio e il personaggio è sempre in scena, allora il suono è extradiegetico perché c’è ma non è inquadrato oppure è diegetico perché c’è ed è inquadrato essendo derivato dal protagonista stesso? Probabilmente è entrambe le cose, probabilmente nessuna delle due. Ho voluto che il dubbio sulla natura dei suoni permanesse, gli unici suoni e le uniche voci reali sono quelle, incomunicanti, della televisione sempre accesa.

Stefano Stagno
  • Genio e sregolatezza o rispetto delle regole e disciplina?

Al cinema le regole servono, eccome, e serve conoscere bene le regole per sapere quando sia proficuo infrangerle, quando quella trasgressione è in grado di dare “quel qualcosa in più”, quel surplus di poesia o emozione al tuo film, che la rende necessaria. Gli schemi e le regole servono per poterli infrangere, non sempre e indistintamente, ma quando l’infrazione ha un suo valore.

Stefano Stagno e Cassandra Barresi

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